DIALOGO TRA BUDDHISMO E CRISTIANESIMO: Gesù un risvegliato? Lettura critica di alcune pagine del libro di Paul Knitter, “Senza Buddha non potrei essere cristiano” (terza ed ultima parte).
3. Partiamo da ciò che abbiamo in comune
Secondo Paul Knitter, una cosa che buddismo e cristianesimo hanno in comune è sicuramente la ‘pratica’. La pratica potrebbe essere considerata come quelle azioni che preservano e nutrono la vita spirituale. Una sorta di allenamento del muscolo spirituale che bisogna esercitare e che, quindi, la pratica mantiene in movimento. Il nostro autore definisce altresì la pratica
“in ciò che si fa per garantirsi che il cuore della propria religione sia anche il proprio cuore, per assicurarsi di essere collegati a quanto ha dato e dà impulso a quella tradizione”[1].
Nelle pagine che seguono, Knitter dettaglia alcuni contenuti e modalità della pratica cristiana, la preghiera, evidenziandone alcuni aspetti problematici e, soprattutto, il dualismo, la relazione con un ‘Dio esterno’[2]. Nello scorrere delle pagine viene quasi suggerito come una sorta di poca chiarezza che si frappone in questa relazione e che ha necessità anche di riti e liturgie particolari e, a volte, di una lunghezza sconcertante, senza capire se ciò che si compie si svolge per se stessi, per gli altri o per l’Altro. Appare quasi chiaro che se si vuole che abbia un valore per se stessi, sia necessario un linguaggio interiore determinato per mettersi in dialogo con Dio. Alcune preghiere sembrano più un monologo e lasciano poco spazio all’ascolto. Di più sarebbe da dire, che molto poco posso pronunciare della divinità anche in virtù di quello che conosco davvero.
Davanti al Mistero, forse, è più opportuno il silenzio.
“Se il Divino è davvero un Mistero che sovrasta ogni umana comprensione, ogni idea o parola umana, allora qualsiasi pratica spirituale deve far spazio, tantissimo spazio!, alla pratica del silenzio”[3].
Forse è la contemplazione il luogo, la tecnica, il modo possibile per i cristiani di fare silenzio? La contemplazione si presta a vari modelli che a volte sfociano in versanti diversi come quello di meditazioni più o meno guidate. Comunque, rimane sempre viva la difficoltà di concedersi la possibilità di pensare, sentire e vivere non un Dio esterno a sé, ma uno presente in sé.
“Nella mia lunga esperienza della tradizione cristiana ho trovato che siamo molto ben forniti di ispirazione, ma molto meno di tecnica; ben equipaggiati di ideali e contenuti, ma poco di metodo”[4].
Bisogna pertanto trovare un metodo che consenta di portare a metodo tutti quei contenuti di cui siamo portatori. È certo che nell’ottuplice sentiero possiamo ricavare alcune informazioni per una buona pratica:
- Impegnati, sforzati
- Ad essere presente a quanto avviene dentro e fuori di te
- Concentrati nel lasciar accedere quel che deve accadere.[5]
Un impegno specifico è alla base di questo metodo. Se non vi è sforzo, non vi è risultato e, questo sforzo deve essere innanzitutto rivolto verso se stessi, al proprio corpo, alle emozioni ed ai pensieri. Per poi andare oltre se stessi e la concezione che abbiamo di noi stessi.
“La presenza mentale ci impedisce di essere dirottati dalle nostre emozioni o opinioni”[6].
Avviarsi alla presenza ci porta a comprendere davvero quello che accade ‘dentro’, nel profondo. Si arriva ad un silenzio ‘vuoto’ di ogni suono che può portare a esperienze mistiche unitive, come in diverse esperienze di mistici cristiani.
“Il silenzio mette in grado il mio essere, che è un <<essere in Cristo>>, di esprimersi, di farsi avvertire”[7].
In questo silenzio trovano una loro collocazione certa l’espressione di San Paolo quando descrive che è Cristo che vive in lui e non è più lui che vive. Le Parole non sono più pensate, ma esse pensano me[8]. Se confidiamo, accadrà e sarà espressa la nostra fede.
Il silenzio dunque accomuna Buddhismo e Cristianesimo. Un silenzio che non è un niente, ma un ‘Tutto’ nel quale cercare di esserci in presenza. Un silenzio cui troppo spesso non siamo abituati che interroga soprattutto i cristiani perché possano riprendere ciò che sin dall’origine e con la tradizione, è stato riservato loro.
[1] 173.
[2] Cfr., 179.
[3] 180.
[4] 185.
[5] Cfr., 188.
[6] 202.
[7] 206.
[8] Cfr., 207.